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“Cosa fai nella vita?”

Elena seduta, vestita di bianco. A destra un'interprete LIS.

Perché odio chi mi chiede “Che cosa fai nella vita?”

Sto a Milano da 11 anni, e qui ho imparato che quando conosci una persona nuova, dopo averle chiesto come si chiama, le chiedi, con nonchalance: “E cosa fai nella vita?”.
Sembra una domanda innocua, e molto aperta, ma a Milano ha un significato preciso e univoco: significa: “Che mestiere fai?”. Perché qui tutto ruota intorno al lavoro. La gente ti giudica sulla base del lavoro che fai, dell’azienda per cui lavori, del job title che hai, e quindi dello stipendio che verosimilmente può dedurre tu abbia.
Be’, io in 11 anni a Milano mi sono dimessa da 2 contratti a tempo indeterminato, ho aperto una partita Iva perché nessuna grande azienda vuole assumere una over 30 iperqualificata e in età fertile, nella mia vita non ho mai guadagnato più di 1.300 euro al mese, però ho iniziato ad avere attacchi di panico e ho una malattia intestinale cronica per la quale non sono ancora riuscita ad avere una diagnosi, ma prendo farmaci da 8 anni per controllare i sintomi. Ah, l’eccellenza della sanità lombarda.
2 anni fa ho deciso che non volevo più misurare la mia vita e il mio valore sulla base di questi parametri, quindi ho licenziato tutti i miei clienti, mi sono presa un anno sabbatico, e alla domanda “Cosa fai nella vita” ho iniziato a dire: “Cerco di essere felice”, in perfetto stile Mangia prega ama.
Le prime volte non ci credevo nemmeno io, e del resto sono anche ben lontana dall’assomigliare a Julia Roberts. Poi ho imparato a suonare più convincente: “Cerco di essere felice. Cerco di essere felice”. A furia di dirlo, ho iniziato a esserlo davvero, più felice. E ho capito che per continuare a esserlo dovevo anche cambiare lavoro, perché non volevo più aiutare persone ricche a diventare ancora più ricche, mentre quelle povere, ai margini, discriminate, stavano sempre peggio.
Ma io lavoro con le parole, da sempre. Sono la mia ossessione, da sempre. Prima erano le favole che mi raccontava mio nonno Nino; poi i classici che divoravo sotto le coperte, la sera; poi sono diventati i trattati di un oscuro autore padovano del Cinquecento; poi parole per raccontare nanotecnologie, stampanti digitali industriali, sistemi di indagine non invasivi, materiali innovativi.
Questo so fare: usare le parole. Ma come si può cambiare il mondo con le parole? Non lo cambiano solo le mediche in missioni umanitarie, le politiche al Congresso europeo, le scienziate scopritrici di vaccini?
Ci ho messo un po’ per capirlo. Non dovevo cambiare lavoro: non dovevo fare un passo più in là, bastava che mi girassi un pochino. Un piccolo cambio di direzione. Anche le parole possono cambiare il mondo, rendendolo un posto più gentile e accogliente per tutte le persone.
Ho capito che ci sono almeno 2 modi per cambiare il mondo con le parole: possiamo imparare a usare parole più gentili, e possiamo imparare a usarle in modo più gentile. Cosa significa? Che possiamo sforzarci di imparare a usare un linguaggio che non discrimina, non offende e anzi, dà visibilità, voce e potere anche a chi fa parte di comunità marginalizzate. E possiamo anche adattare il nostro modo di comunicare perché sia semplice, chiaro e accessibile per il maggior numero di persone possibile.
E quindi ora cosa rispondo, a chi mi chiede che cosa faccio nella vita? Che provo a essere felice e a cambiare il mondo.

Ho tenuto suppergiù questo discorso durante Dire, fare, comunicare, giornata di sensibilizzazione sulla comunicazione accessibile organizzata da Associazione Fedora, il 5 maggio 2024. Dico “suppergiù” perché ho una memoria pessima, e sono andata un po’ a braccio. Ma ecco, quello che volevo dire era questo.

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